sabato 26 novembre 2011

Come provocare le catastrofi


Così arretrata sul piano giuridico e culturale, non è da meravigliarsi se l'Italia, come qualcuno ha giustamente detto, è il paese che sa meglio predisporre, organizzare e provocare quelle catastrofi che poi per consuetudine linguistica, continuano ad esser dette "catastrofi naturali". Le frane e le alluvioni che a intervalli regolari devastano l'ex giardino d'Europa hanno la loro causa prima nel disprezzo che dimostriamo per l'ambiente naturale, nelle insensate manomissioni cui abbiamo sottoposto il nostro territorio, nel rifiuto di conoscere il suolo in cui operiamo, nell'incapacità di esprimere una politica di piano che controlli trasformazioni e sviluppo, subordinandoli all'interesse pubblico.
Un primo panorama del disordine (primo della lunghissima serie di convegni, dibattiti, appelli che poi sarebbe seguita) ci venne presentato, ed era già tardi, nel 1964 in un congresso dell'Accademia dei Lincei, nel quale, tra l'altro, si diceva quanto segue. Con l'uso indiscriminato di insetticidi e anticrittogamici eliminiamo gli insetti necassari alle colture e alla fecondazione delle piante, e quindi sterminiamo gli uccelli che se ne cibano, compresi quelli utili all'agricoltura. Con la caccia incontrollata completiamo la strage della fauna, e desertifichiamo le campagne. Con gli scarichi industriali avveleniamo le acque, i pozzi, le colture, gli animali domestici. Con le bonifiche, attuate al di fuori di ogni seria valutazione economica, eliminiamo le paludi che sono la naturale valvola di sfogo dei corsi d'acqua.
Con gli impianti idroelettrici prosciughiamo le acque sottorranee e di superficie, inaridiamo il manto vegetale, minacciamo flora e fauna, trasformiamo fiumi e torrenti in una serie di greti asciutti, che poi gli scarichi degli abitati trasformano in pozze luride e infette. Col pretesto del turismo, in realtà per speculazione, lottizziamo e privatizziamo perfino i parchi nazionali, "santuari della natura", orgoglio dei paesi civili. Col disboscamento e il mancato rimboschimento favoriamo l'erosione, le frane, la furia delle acque selvagge, con le conseguenze a tutti note.
All'abbandono della campagna non abbiamo saputo far seguire un'opera sistematica di difesa del suolo, nel quadro di una moderna politica territoriale. Con la distruzione del verde nelle città e la costruzione di quartieri congestionati e incivili, favoriamo l'inquinamento dell'aria, priviamo la gente di ogni possibilità di ricreazione ed esercizio fisico, con gravi effetti sulla salute di giovani e adulti. E via dicendo.
Quel protocongresso ecologico terminò con voti e auspici che, come tutti quelli che poi sono seguiti, non hanno minimamente impressionato i destinatari, gli uomini di governo. Quanto siamo venuti facendo è così sistematico, incosciente e irresponsabile che sembra davvero ubbidire ad alcuni principi generali di efffetto sicuro, che sono appunto i più adatti a provocare il dissesto del suolo, allagamenti, alluvioni e altre calamità "naturali". Quali sono? Ce li illustra una rivista francese, in un'intervista col responsabile della politica ambientale di un paese immaginario, molto esperto nella nuova arte: "comment organiser les catastrophes".
Eccone qualcuno. Allevare nelle scuole "tecnici" specializzati quanto insensibili a ogni impegno politico-culturale, e convinti della superiorità della propria specializzazione su ogni altra. Fare in modo che le diverse amministrazioni (agricoltura e foreste, lavori pubblici, pubblica istruzione, industria e commercio, ecc.) agiscano come compartimenti stagni, rifiutando ogni coordinamento e visione globale dei problemi. Diffidare da quegli enti di cultura disinteressati (come sarebbero per esempio "Italia nostra", il Fondo mondiale per la natura, l'Istituto nazionale di urbanistica, ecc.) che si battono contro l'insensato sfruttamento delle risorse e per la difesa del patrimonio culturale e naturale. Infine e soprattutto, elaborare solo piani di settore, puntare sul vantaggio economico immediato, profittare al massimo, senza preoccuparsi delle conseguenze, dell'illimitata capacità degli uomini e delle forze economiche di cambiare a piacimento l'ambiente della nostra vita.
Impassibile e soddisfatto, l'intervistato ci illustra i risultati di così brillanti indirizzi. Dighe costruite a regola d'arte che crollano ai primi movimenti di terra non previsti dai tecnici del cemento armato, ma previsti dagli inascoltati geologi, splendide bonifiche sommerse in un attimo dalla furia delle acque, perchè gli economisti della barbabietola non hanno datto retta agli esperti di difesa idrogeologica del suolo; efficienti arginature di fiumi che saltano alla prima occasione, grazie al sistematico disboscamnto operato in montagna dai forestali, per i quali un albero comincia a valere qualcosa soltanto quando è segato; grandiosi insediamenti turistici in collina portati via dalle frane perchè gli impianti idroelettrici (o forse vogliamo "tornare al lume di candela?") hanno poco a poco inaridito il manto vegetale; complessi industriali in riva al mare i quali, inquinando irreversibilmente le acque e distruggendo ogni attrattiva paesistica, eliminando alla base ogni noiosa controversia sull'utilizzazione delle coste. E via di questo passo: Con il che, osserva l'autorevole personaggio, vengono una buona volta evitati i complicati e pericolosi problemi politici posti da una pianificazione coordinata: e inoltre, nei casi più clamorosi, si concorre a risolvere in modo drastico e spicciativo alcuni tra i maggiori malanni che affliggono in varia misura sia i paesi ricchi che quelli poveri: sovrapopolazione, sovraproduzione, sottoalimentazione, ecc.
Tutto ciò sembra calzare prfettamente con quanto avviene da noi. Ad esmpio: come fare per distruggere Venezia? Si prosciughino e interrino migliaia di ettari di barene e la laguna, fino a ieri bacino elastico e autoregolantesi, diventerà un catino dalle sponde rigide, con conseguente aumento della velocità delle acque di deflusso, aggravamento dell'erosione delle fondamentadegli edifici e allagamento sempre più grave dell'isola storica. Si scavino in continuazione pozzi d'acqua dolce, e accelereremo lo sprofondamento dell'illustre città. Si faccia il nuovo canale per le superpetroliere, si relaizzi la terza zona industriale, e la laguna potrà essere finalmente trasformata in mare di petrolio: avremo così posto tutte le premesse perchè Venezia (nel frattempo "restaurata" dalle società immobiliari, e quindi distrutta nei suoi valori umani e storici) salti finalmente per aria con tutti i suoi abitanti al primo scoppio di petroiera. Oltretutto, sarà un bello scherzo all'italiana alla faccia del mondo che ci ha prestato i miliardi per "salvare" questo inutile avanzo del passato: che già il padre dei futuristi avava con animo profetico definito "piaga purulenta d'Italia", "calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali", "semicupio sfondato per cortigiane cosmoplite", "cloaca massima del passatismo".


Antonio Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, Einaudi, 1975

mercoledì 24 agosto 2011

Antonio Gramsci - Quaderni del Carcere (edizione digitale 2007 - a cura di Dario Ragazzini)

Il Cd Rom dei Quaderni del Carcere, a cura di Dario Ragazzini, prima versione digitale del capolavoro gramsciano, con le fonti, i rimandi, le occorrenze, la possibilità di raffrontare le diverse versioni delle note, di cui quei manoscritti sono fatti. Uno strumento formidabile per seguire passo passo non solo l’ordine cronologico dei Quaderni, magistralmente ricostruito a suo tempo da Valentino Gerratana. Ma anche quello ideale e tematico, sotteso in filigrana come progetto a venire del prigioniero pensante. L’altro dono è un’antologia: Le Opere, a cura di Antonio A. Santucci. Ripubblicata a diciasette anni dalla sua prima comparsa per gli Editori Riuniti per la collana le «Chiavi del tempo». Che mantiene intatto il suo carattere di rigoroso «thesaurum» filologico e diacronico, e che anzi resta come esempio di come andrebbe fatta un’antologia. Non scelta più o meno arbitaria quindi, legata ai gusti del curatore. Bensì in questo caso, autentico gesto di lettura sintetica, che dà conto in sviluppo delle idee dell’autore, così come si venivano formando nel vivo della sua battaglia (è la parola giusta per Gramsci). E qui mi sia consentita una divagazione, necessaria. Poiché chiarisce il senso di un volume, che è di per sè un’«opera». Antonio Santucci, scomparso prematuramente nel 2004, non solo era un amico de l’Unità, per la quale concepì volumi e iniziative gramsciane di formidabile spessore e successo. Fu un grande studioso di Gramsci, che accanto a Valentino Gerratana, fu protagonista di uno degli eventi più importanti per la cultura italiana: l’edizione critica, la prima, delle Opere di Gramsci per Einaudi. Anche grazie a lui è stato possibile ripristinare tutti i testi di cui parliamo, datarli, disporli, salvaguardarli. Inquadrarli. E ciò ben prima (1975) della prossima edizione nazionale degli scritti per l’Enciclopedia Italiana della Fondazione Istituto Gramsci, che verrà presentata a giorni al Capo dello Stato in Sardegna. Grazie al lavoro di Gerratana e Santucci, e senza dimenticare l’apporto infaticabile di Elsa Fubini, Caprioglio, Dino Ferreri, Spriano e tanti altri di quella stagione, il pianeta Gramsci è stato reso percorribile e anche «preparato» per ulteriori sistemazioni, che nondimeno non possono prescindere dalla mappatura del 1975. Dunque, chi aprirà l’antologia di Santucci, per formarsi una sua idea del Gramsci pensante, sa di essere in buone mani. Perché, e possiamo testimoniarlo personalmente, non v’era nessuno come Antonio in grado di agguantare il flusso fulmineo e stenografico dei pensieri gramsciani. E di districarne la selva, guidandovi dentro i profani.

Qual è il pregio di questa «antologia» strepitosa, con limpide istruzioini per l’uso, note contestualizzanti e indice dei nomi? Quello di una cronologia tematizzata. Che fa capire gli impulsi, e gli influssi temporali, che Gramsci accoglie e trasforma reattivamente. Illuminando al contempo il metodo di lavoro del prigioniero, allorchè si trovò ristretto in cella. Insomma, tra gli scritti giornalistici giovanili per il Grido del popolo e le splendide, attualissime pagine dei Quaderni su «Americanismo e fordismo» che chiudono idealmente il volume, c’è tutto Gramsci. Tutto, con le critiche teatrali, gli articoli sull’Ordine Nuovo e l’Avanti! - incluso il celebre «La rivoluzione (russa) contro il Capitale» del 1917 - lo scritto sulla Quistione meridionale, e la famosa polemica con Togliatti del 1926, riportata pari pari nel suo drammatico svolgimento epistolare, prima dell’arresto di Gramsci. Da un lato in quell’anno il realismo di Ercoli, che vede come necessità politica le misure contro l’opposizione di sinistra in Urss. Dall’altro la preveggenza di Gramsci, benché d’accordo con il Comintern, contro Trotsky: la disciplina forzosa «svuoterà» l’opera dei bolscevichi e renderà lo stato proletario una caserma autocratica. Nessuna elusione, nessuna celebrazione del «santino». Gramsci è lì cocciuto, nel 1926 e in altri momenti, a rivendicare la sua idea eretica della rivoluzione e della politica contro ogni tatticismo. E in tempi davvero tragici, di lealtà indiscusse, incipiente terrorismo staliniano e consolidantesi terrorismo fascista.
Qual è il problema di Gramsci, prima e dopo l’arresto, pur nella discontinuità della fase autocritica? Semplice, si fa per dire: un «pensiero-azione» della liberazione. Una filosofia pratica dell’emancipazione delle classi subalterne. Che passa attraverso due momenti.
La ricognizione delle sconfitte popolari, durante il Risorgimento e col fascismo. E la comprensione del quadro mondiale, con lo spostamento del baricentro del «progresso» dalla rottura russa del 1917 alla nuova economia globale americana. Con in mezzo le «modernizzazioni conservatrici» fasciste, del pari contraccolpi della guerra e del sommovimento ad Oriente che spezza il mercato mondiale. E qui comincia la lunga marcia del pensiero di Gramsci. Il tentativo di indicare la strada ai «ceti subalterni» dentro la modernità della «società civile», addestrando individui e gruppi al governo capillare di istituzioni, economia e società. «Prima» della presa del potere, e scongelando le «forme simboliche» di cui il potere si nutre. Sul territorio, nella scuola, nelle riviste, nei giornali, nelle unità economiche. Nel «folklore» e nel senso comune. Un lavorìo democratico, tra scontri e alleanze. Dove l’impegno «filosofico» più alto è proprio la politica come intellettualità collettiva, dialogata e conflittuale. E dove la posta in gioco è sempre quella. Ieri con Gramsci, oggi dopo di lui. Rovesciare il gioco dei dominanti. Senza lasciarsi decapitare dalla passività e dal trasformismo. In fondo la «filosofia della praxis», anima delle idee di Gramsci era questa. Un lungo viaggio della libertà.

da Gramsci, quel lungo viaggio della libertà, di Bruno Gravagnuolo, L’Unità 26.4.07


Già da tempo era in circolazione (su torrent) la copia anastatica in pdf dei "Quaderni", la quale però non permetteva la ricerca di frasi o parole all'interno del testo. Questa edizione, della quale sono venuto a conoscenza poco tempo fa e che pare sia passata nell'anonimato (almeno in internet), permette invece ricerche lessicali avanzate sia nel testo che nelle note (per queste ultime è possibile persino effettuare confronti paralleli).
Il file l'ho trovato (incredibilmente) in stato di incuria e di abbandono sul vecchio eMule. Ho scritto delle istruzioni per l'installazione, spero sufficientemente chiare, e le ho aggiunte nella cartella (.rar).
Buona lettura.